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No all’invio delle armi in Ucraina, è come gettare benzina sul fuoco

E’ come gettare benzina su un fuoco ormai dilagante. L’invio di armi in Ucraina non è la soluzione. Se l’Europa pensa di bloccare così il conflitto, di fare bene all’Ucraina, e di fermare la Russia di Putin inviando mitragliette, sta sbagliando di grosso.

Se pensa di fare bene all’Ucraina spendendo milioni e milioni di euro per dotare i soldati di fucili,  invece di impiegare quei fondi per i corridoi umanitari, per gli aiuti e l’accoglienza, sta sbagliando di grosso.

Se la strategia dell’Unione europea e degli Usa è quella di inviare armi, come già si faceva in Iraq, in Libia o in Afghanistan con i risultati che conosciamo bene, allora le prospettive sono veramente scoraggianti.

Non è bastata la mossa di Volodymyr Zelenskyj che ha guidato un popolo democratico incontro alla morte e alla devastazione e il mondo verso una guerra mondiale per quella che chiama libertà, invece di lavorare diplomaticamente per ottenere la vera libertà, quella che si conquista con la pace e con il dialogo, anche di fronte alla prepotenza.

Se il signor Zelenskyj pensava di entrare nel Patto Atlantico scrollandosi di dosso l’identità sovietica del passato semplicemente schioccando le dita, magari pensando che  una potenza militare come la Russia guidata dal più spregiudicato leader dell’era moderna rimanesse semplicemente a guardare in silenzio,  si sbagliava di grosso, purtroppo.

Non si può battere un campione di boxe tirando pugni, ma si può batterlo  cercando in ogni modo di convincerlo a sfilarsi i guantoni.

La strategia giusta è quella di trovare la pace, non di alimentare la guerra.

Il mondo si è “arreso” alla guerra, c’è invece uno che ancora “combatte” per la pace

E’ uscito di casa intorno alle 11.
Con un ginocchio bloccato è andato a suonare al campanello di Aleksander Avdeev e ha atteso sotto casa sua, al numero 10 di  via della Conciliazione.
Si è presentato in questo modo a casa dell’ambasciatore russo presso la Santa Sede. Gli ha chiesto di parlare con Putin per fermare i bombardamenti.
C’è ancora qualcuno, a differenza dei governanti Usa e Ue che non hanno trovato nulla di meglio da fare che inviare altre armi, convinto che il dialogo possa fermare le bombe.
Questo qualcuno è papa Francesco.

D’altronde qualcuno lo ha detto chiaramente ai settantadue discepoli che aveva appena scelto.
“In qualunque casa entriate, dite prima: Pace a questa casa! Se vi è lì un figlio di pace, la vostra pace riposerà su di lui, se no, ritornerà a voi”. Lc 10, 1-12

E’ molto chiaro Gesù.
Quando un cristiano va a bussare in una casa, sia quella di un ambasciatore, sia quella di un governante, non deve mettersi a predicare, ma deve dire una cosa sola: “pace“.
Deve dire “pace a questa casa!”, pace a questa terra.

Bergoglio questo ha fatto e, ciò è sicuro, continuerà a farlo, finché i missili non si fermeranno veramente. E’ ingenuo, ma ha la fede necessaria per esserlo e per sperare ancora.
“Andate! Io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi, non portate né borsa, né sacco, né sandali e lungo il cammino non fermatevi a salutare nessuno”. Lc 10, 3-4
Papa Francesco è salito sulla Cinquecento e, come un agnello, ha raggiunto la casa di Aleksander Avdeev, senza fermarsi a salutare i fedeli, senza portare niente con sé, claudicante, ma determinato.

Il mondo invece si è arresto alla guerra, ha smesso di provarci ancora. Non si è arreso a Putin, ma alla guerra sì.

Chi pagherà il prezzo delle sanzioni alla Russia? Gli Usa? No, l’Italia

Si fa presto a dire sanzioni.

Le pesanti sanzioni economiche contro il Cremlino sono state annunciate da Unione europea e Stati Uniti.

Ok.

Ma chi pagherà il prezzo di queste sanzioni? L’Europa, ma soprattutto l’Italia.

Infatti tutta l’Europa dipende dal gas russo, ma l’Italia di più.
Basti pensare che l’Italia importa il 43 per cento del gas nazionale dalla Russia e di conseguenza il 60 per cento dell’elettricità dell’intera nazione, prodotta in casa nostra proprio col gas naturale.

Basterebbe che Putin (ipotesi non fantasiosa ma molto probabile) chiudesse i rubinetti, anche se solo in minima parte, per mettere in crisi l’economia italiana e far sprofondare nella povertà la grande maggioranza delle famiglie italiane.

E questo in realtà è già (in parte) cominciato.

Dal mese di giugno, infatti, il Cremlino ha ridotto del 25 per cento le forniture all’Italia.

Risultato?

Lo sappiamo tutti, purtroppo.

Prezzo del gas triplicato e prezzo dell’energia elettrica raddoppiato.
Infatti la produzione avviene attraverso il gas naturale.

I contraccolpi in Italia potrebbero essere deleteri…

Sanzioni a Putin?
Va bene, ma le bollette costano il doppio in Italia.

Certo suona strano, ma è così.

Finora, un’attività commerciale che nel 2021 pagava mille euro al mese, 12mila all’anno, nel 2022 pagherà 25mila euro.

Questo Putin lo sa.

Se Putin dovesse decidere, in conseguenza alle sanzioni Usa-Ue, di chiudere solo ancora un pochino il rubinetto, allora quella stessa attività si ritroverebbe a pagare da 12mila euro a 40-50mila all’anno.

Quante di queste attività potrebbero sopravvivere?

Si fa presto a dire sanzioni da oltreoceano.

Ma l’aumento ha riguardato non solo l’elettricità, ma tutti gli altri gli altri beni e servizi, tanto che l’inflazione non era così alta da decenni.

Gli Usa e il resto d’Europa dalle sanzioni non saranno così penalizzati quanto l’Italia.

D’altronde la stessa cosa accadde nel 2014 quando la Russia invase la Crimea e vennero applicate le sanzioni.

Le conseguenze peggiori ci furono per diversi Paesi europei.

Ma gli Usa non ebbero alcuna conseguenza.

L’Italia farebbe bene a mantenere ancora i rapporti diplomatici con il Cremlino.
E farebbe bene a valutare attentamente quali e quante sanzioni verranno inflitte alla Russia.

Questo perché in realtà quelle sanzioni alla Russia sono allo stesso tempo, per Italia, sanzioni a se stessa.

Purtroppo la guerra è l’odio non portano mai nulla di buono a nessuno, non hanno mai conseguenze positive per nessuno e non ci sono vincitori. A parte gli Usa.

Si fa presto a dire sanzioni.

X generation: cos’è realmente e cosa non è vero della generazione che ha sfidato il mondo

La chiamano Generazione X, la X generation. Sono i nati negli anni ’70, quelli che oggi hanno tra i 40 e i 50 anni.   La descrivono come la generazione perduta, dei giovani apatici, senz’anima, inutili alla società nella quale sono cresciuti, quella generazione scialba arrivata  dalla crisi energetica e dall’austerity, quella generazione che ha inventato la parola ecologia, dei ragazzi confusi in balia degli eventi, tra  il terrorismo rosso di matrice comunista  e il terrorismo nero di matrice neofascista, spettatori inermi degli anni di piombo.

Ci descrivono come una generazione senza valori, ma noi di valori, forse a volte semplici ma spesso sani, ce li avevamo, e come.

Io la chiamo la generazione V (vita vissuta, valori veri).

Siamo la generazione cresciuta in mezzo alla strada, la generazione dell’estate. Quando arrivava non ci fermava più nessuno. A quei tempi era sempre una festa. Bastava uscire di casa per ritrovarsi in mezzo alla strada per una nuova avventura, sempre diversa. E quando il sole calava e le gambe non ci tenevano più per la stanchezza non volevamo mai rincasare, volevamo restare in mezzo alla gente, in mezzo alla strada, fino allo sfinimento, sperando che qualcos’altro accadesse, che iniziasse a grandinare, o magari qualcuno accendesse un fuoco in mezzo al prato e arrivasse giorno di nuovo, e ricominciare a correre, fino a quando facesse buio ancora una volta, e poi ancora giorno, per ricominciare da capo a stare tra la gente del quartiere, tra gli amici, tra le famiglie, tra vicini di casa, aspettando qualcosa di nuovo, perché ogni giorno era nuovo ed era unico. Perché non avevamo paura di niente e di nessuno, perché camminare per strada, anche con le scarpe rotte e coi piedi sanguinanti, era leggero come danzare.

Siamo la generazione forgiata da una società difficile, che non ha vissuto la povertà  della guerra come i Baby Boomers (’40 – ’60), ma che ha vissuto la povertà sociale, psicologica, la peggiore. La generazione della disoccupazione, del precariato, che ha visto attraversare il mondo da cambiamenti epocali, dirompenti rispetto al passato, così forti che neanche la pandemia degli Screenagers (dal 2010) è alla pari, così rivoluzionari che  i  Millennials (tra ’80 e 2000) o quelli della Generazione Z (dal 2000) non potranno mai capire.

Siamo quelli condotti dai tempi alla tattica del rinvio, cioè portati a sposarsi solo dopo i 30 anni, a lavorare prima di finire gli studi, quelli colpiti dalla sindrome del ritardo, costretti a rimanere a casa di mamma e papà fino ai 40 anni.

Siamo quelli della caduta del  muro di Berlino, noi siamo gli “immigrati digitali“, quelli nati prima di internet e cresciuti con internet, quelli costretti a passare dalle chiamate infinite dentro alle cabine telefoniche ai cellulari. Ma siamo anche gli “immigrati musicali“, quelli che hanno usato sia le cassette che i cd.

Siamo quelli del boom delle sale giochi e del Commodore 64, la generazione MTV, della Milano da bere, dei paninari e dei metallari, ma anche quella del Giubileo del 2000, quelli con la paura della guerra del Golfo, concreti ma anche sognatori, idealisti, con le frasi di Jim Morrison sul diario e i poster di James Dean in cameretta.

Siamo quelli delle canzoni intorno al fuoco con la chitarra e non intorno al karaoke, quelli dei  walkman in tasca e con la gelatina sui capelli, la generazione delle proteste pacifiche e dell’occupazione delle scuole, e delle chiese piene di ragazzi.

Siamo anche quelli delle  tristi olimpiadi a metà, dell’attentato al Papa, dei mondiali di Pablito e il presidente Pertini, della notte indimenticabile con la coppa alzata al cielo di Dino Zoff, del disastro del Challenger, e della  love story più bella di sempre con Il tempo delle mele, della cometa di Halley e di Chernobil,  delle manifestazioni di piazza Tien an men, della tensione internazionale tra Usa e Urss e dello scudo spaziale.

Siamo vissuti quando tutto era possibile, anche che una sconosciuta cameriera al minimo salariale potesse diventare la numero uno assoluta della musica pop e chiamarsi Madonna.
Siamo la generazione cresciuta con i film più belli di sempre, con la fantascienza di Ritorno al futuro e l’avventura di Indiana Jones, l’azione vera di Arma Letale e Rambo ma anche i cult Nove settimane e mezzo, Full metal jacket e L’attimo fuggente. E poi  Terminator, Una pallottola spuntata, Fuga per la vittoria, Roky, ma anche il film inchiesta  The day after, che scioccò l’America e il mondo.
Siamo quelli arrivati prima del binge watching e dello  streaming online on demand, con le serie tv infinite costrertti ad aspettare un giorno per vedere la puntata successiva, o addirittura una settimana, quelli cresciuti con l’A-Team e McGyver, del boom di Dallas e Dynasty, delle risate non volgari dei Robinson e dei Jefferson, di Arnold e della Famiglia Addams. Quelli col mito di Fonzie di Happy days, ma anche della Casa nella prateria e di School of performing arts (Saranno famosi). E poi Hazzard, Supercar, Automen, Mark McCormick, La Ferrari rossa di Magnum PI.
Siamo quelli dei  supereroi leali e buoni,  L’incredibile Hulk, La donna bionica, L’uomo da sei milioni di dollari Steve Austin, Wondre woman, Zorro, Sandokan e Tarzan.
La generazione dei poliziotti che non ammazzavano,  Frank “Ponch” Poncharello e John Baker dei Chips, StarskyHutch, Colombo e Miami Vice. Quelli dei miti italiani come I ragazzi della terza C, Classe di Ferro, Love me Licia, X files, Stranger Things, ma quello originale.

E poi i programmi tv Drive In, Indietro Tutta, Quark, Colpo grosso, Portobello, 90° minuto.

E dei cartoni animati, come Goldrake, Jeeg robot d’acciaio, Il grande Mazinga, Mazinga z e dei cartoni “Shojo” sui sentimenti come Candy Candy, Lady Oscar, Dolce Remi, Heidi, Bia e Le streghette.
Siamo quelli dello sport dei record e dei sogni, la mano di dio che fermò gli inglesi, Borg cinque volte sul trono di Londra, il bronzo di Mennea sui 200, la volata nei 10.000 del baffo di Alberto Cova, il grande Alberto Tomba che entra nella storia mondiale, i fratelli Abbagnale con la telecronaca di  Galeazzi, Michael Jordan che guida la Nazionale di basket al successo olimpico, Niki Lauda che vince il Mondiale di Formula 1.

Siamo la generazione che giocava a pallone con il Super Tele e quando c’era un pallone di cuoio la strada con le porte coi sassi sembrava San Siro, quelli che giocavano col cubo di Rubik, al Subbuteo e al Biliardino, a Risiko e a Monopoli, che mangiavano i prodotti pieni di coloranti e conservanti e la girella Motta, che attaccavano ovunque gli adesivi del Camel Trophy, che andavano in bici con le bellissime Bmx e in moto sui mitici cinquantini come il Ciao, il , il Fifty e la Vespa Px, e che facevano fino a 20 anni le figurine dei calciatori.

Siamo quelli degli “anni ballando, ballando, Reagan-Gorbaciov, danza la fame nel mondo, un tragico rondò, noi siamo sempre più soli, singole metà, anni sui libri di scuola e poi che cosa resterà. Anni di amori violenti litigando per le vie, sempre pronti io e te a nuove geometrie, anni vuoti come lattine abbandonate là, ora che siamo alla fine noi di questa eternità..”.

Questo siamo.

Forse è poco, ma tutto quello che abbiamo fatto ce lo siamo sudato e l’abbiamo fatto con passione.
Forse è vero, ci siamo sentiti una generazione perduta, ma mai arresa.
Forse è vero, abbiamo cambiato mille lavori, ma oggi siamo noi il mondo del lavoro (circa il 60% dell’attuale forza lavoro)
Forse è  vero, abbiamo vissuto finora con la necessità del cambiamento, ma alla fine ce l’abbiamo fatta a cambiare il mondo, quello che in fondo volevamo.
Forse è vero, abbiamo faticato a trovare noi stessi, ma ci siamo trovati.
Forse è vero, siamo stati la generazione invisibile, ma il mondo ci ha visto e continua a imparare guardando indietro.
Forse è vero, abbiamo rifiutato i valori del passato, ma mai i valori.

Generazione X

Ecco perché a volte mi sento solidale con i no vax

Stiamo assistendo a una frattura sociale nata e cresciuta in modo così repentino da non averne uguali nella storia dell’umanità. E’ quella tra vax e no vax. Una divisione sociale sì, ma anche ideologica, entrata nella vita di tutti i giorni, che è riuscita a cancellare anche quella politica e addirittura culturale. Ma cosa c’è dietro?

C’è la paura.
Alla base di tutto questo c’è la paura da un lato e l’egoismo dall’altro, due sentimenti che si bilanciano a vicenda, che ci fanno credere a tutto e al contrario di tutto. E credere, anche all’assurdo, è necessario alla tranquillità dell’animo e, per dir così, “a poter vivere“.

Perché la medicina non è matematica, non è fisica e non è neanche chimica.
La medicina è imperfetta e come tale si districa tra i meandri della probabilità e quelli dell’anatomia.

Quando viene contestato ai no vax di non affidarsi alla scienza è un rimprovero ingiusto. Perché la medicina non è una scienza perfetta.

La medicina è una disciplina che si fonda essenzialmente più sull’osservazione e sull’esperienza che sul calcolo matematico.
Una disciplina caotica, quasi confusionaria, in continua evoluzione. E mai, come in questa occasione dettata dal covid, questa imprecisione è emersa in tutta la sua drammaticità, con la comunità scientifica divisa quasi su tutto, convinta di tutto e del contrario di tutto, tanto per dirlo senza infierire più di tanto.

Che poi i vaccini siano il male minore, almeno per ora, solo un miope (anzi, un cieco, che è meglio) può non capirlo.
Una delle poche cose certe di questa epoca covidiana, oltre all’arrivo del virus, è la nascita della filosofia complottista, così ridicola da non poter essere condivisa da nessun uomo sano di mente, ma così reale da dover essere in fondo capita, compresa, persino giustificata.

E lo aveva capito bene Leopardi, già ai suoi tempi, quando scriveva:
Abbiasi per assioma generale che, salvo per tempo corto, l’uomo, non ostante qualunque certezza ed evidenza delle cose contrarie, non lascia mai tra sé e sé.. di creder vere quelle cose, la credenza delle quali gli è necessaria alla tranquillità dell’animo, e, per dir così, a poter vivere”.

E’ la paura della morte che ci fa credere a tutto e al contrario di tutto. Ma, come diceva uno che conosco bene, la paura è sempre peggio della sua causa.

E, per essere sinceri con se stessi, dovremmo ammettere che tanto è ridicola la tesi complottista contro i vaccini, quanto lo sono (o lo sono state) quelle di una parte della comunità scientifica. Come quando, nell’estate del 2020, sosteneva la definitiva scomparsa del virus, oppure la confusione nelle cure domiciliari, cortisone sì cortisone no, antibiotici sì antibiotici no, un metro di distanza, oppure due, copertura al 90%, al 60%, funziona contro la variante, non funziona più… e tante altre contraddizioni del genere. Se ne potrebbero elencare altre per ore.

Scivoloni di quel mondo scientifico che oggi non può sentirsi autorizzato a criticare, a rimproverare chi, come il popolo dei no vax, si fa  propugnatore di altrettanta incongruenza.

Certo, i no vax ci stanno riempiendo gli ospedali, ci stanno facendo rinviare  quasi mezzo milione di interventi oncologici programmati, ci stanno occupando le terapie intensive privandone anche quei pazienti no covid che ne hanno grande bisogno, stanno facendo arrivare nei reparti i bambini, costretti a essere ricoverati senza avere vicino un papà, una mamma, una nonna, cose che traumatizzano a vita. Ma tutto ciò, per quanto sia grave e drammatico, non fa del mondo scientifico il detentore della verità assoluta, e non gli dà la patente della critica nei confronti di chi non vuole vaccinarsi.
Anzi questi ultimi, se proprio si vuol essere intellettualmente onesti, sono maggiormente giustificati nell’affermare le loro deliranti teorie e nel perseverare nell’errore, in quanto trattasi per lo più di persone totalmente ignoranti in materia. Non sanno di cosa parlano, si affidano spesso a teorie sconclusionate, un po’ come fanno le persone con i maghi. Quindi, possono dire quello che vogliono anche se un senso non c’è.

Al contrario, dalla comunità scientifica non te l’aspetti tanta approssimazione.
È proprio per questo che i dati raccolti su milioni di persone non riescono ora a razionalizzare le scelte e i comportamenti irrazionali dei no vax.

Siamo sempre lì, ci guidano più la paura e l’egoismo che un altruistico e coraggioso senso di maturità.

Un no vax se ne frega del senso di responsabilità, delle varianti che rischiano di aumentare, di una economia che muore e di un mondo che va a rotoli.
Hanno paura del vaccino. Stop. Questa è la verità.

Ma allo stesso modo, non si dica che chi si vaccina  lo fa per proteggere la comunità dalle varianti o per salvare il mondo che va a rotoli. Sarebbe troppo ipocrita. Perché, al pari dei no vax, il pro vax lo fa per proteggere se stesso dalla morte. O per lo meno lo fa per entrambe le cose, ma prima per salvarsi la pelle e solo poi, forse, per il resto.
Se non è così, allora chi lo fa con spirito diverso da quello dei no vax, chi lo fa principalmente con spirito altruistico, alzi la mano.

Oro, incenso e mirra

Un cammino di vita.

Oro (regalità)
Incenso (santità)
Mirra (umanità)

Il cammino dei Magi rappresenta la nostra vita. Un cammino che, come la vita, è insidioso, impegnativo, difficile.
Quella dei magi è una scelta. Ogni cammino è una scelta di vita. Si può guardare a terra, rimanere fermi e accontentarsi, oppure guardare in alto, seguire la stella e accettare la sfida.

Ci sono tanti Erode che provano a ingannarci, tanti problemi da affrontare per trovare la strada giusta. Mt 2, 1-12

Ma quello che ci salva è il desiderio dell’amore.

Chi ama il viaggio trova la stella che lo guida, trova il sogno che ti dà la forza di proseguire, che ti aiuta contro il male, e trova, infine, quel bimbo, che ti fa aprire l’anima, che ti fa donare tutto quello che hai, il tuo oro (la tua regalità, quello che hai costruito nella vita), il tuo incenso (la santità, i tuoi sogni, le tue aspirazioni, il tuo desiderio di pace), la tua mirra (la tua umanità, la tua fragilità, quello che ti ha fatto soffrire nella vita, che ti fa aprire il tuo cuore, che ti porta alla felicità).

I magi hanno scelto. E noi?

Natale per fermare il lockdown… (del cuore)

Non solo oggi: infatti “venne ad abitare in mezzo a noi”.
Non è venuto a farci una visita di cortesia per le feste e a dirci buon Natale, per poi andarsene.
È venuto per restare, per abitare tra noi, perché Natale è tutti i giorni, è per sempre.

Il verbo si è fatto carne, significa che si è fatto abbraccio quando è cresciuto con Maria e Giuseppe, si è fatto lacrime quando ha pianto per la morte dell’amico Lazzaro, si è fatto cibo quando ha mangiato a tavola in compagnia con i suoi amici discepoli, si è fatto sangue quanto è stato frustato e poi crocifisso.
E’ venuto a condividere la vita fatta di gioie e dolore  come ognuno di noi.

Per questo dobbiamo aprire la porta a Gesù che viene a vivere con noi, come noi. E questo significa che dobbiamo aprire la porta del cuore  alle persone che incontriamo nella vita.

Non cediamo al lockdown del cuore, non chiudiamoci in noi, aiutiamoci, teniamoci per mano, ascoltiamoci, insieme, ricchi e poveri, forti e deboli, grandi e piccoli, belli e brutti, bianchi e neri, buoni e cattivi perché siamo tutti uguali davanti a Gesù bambino in cui c’è, allo stesso tempo, tutta la divinità e tutta l’umanità.

Non oggi, non solo oggi, non buon Natale: buona vita.

Mio figlio è un bravo ragazzo

“Solo una goliardata”.

Lo ha detto il molestatore di Empoli che ha dato una pacca sul sedere della giornalista Greta Beccaglia dopo la partita con la Fiorentina. “A casa mi hanno detto: ‘Come ti è venuto in mente?’, racconta il giovane, “me l’ha detto anche la mia compagna. Sanno che non sono una persona cattiva”.

“Mio figlio ha fatto una cavolata, ma è un bravo ragazzo, siamo una famiglia per bene”.
Questo  lo ha detto invece il padre del giovane che l’altra sera ha accoltellato un carabiniere a Torino dopo una rapina.

E sul caso dei  ragazzi di Luco dei Marsi (L’Aquila) che su Instagram si riprendono in posizioni ambigue mentre maltrattano e una bambola gonfiabile proprio nel giorno dedicato alla lotta contro la violenza sulle donne, cosa è successo?

La stessa cosa. “Solo ironia”, si sono difesi, uno scherzo. L’unica differenza è che in questo caso nessuno ha chiesto scusa. Anzi, hanno cercato di denigrare anche la giornalista che ha scritto l’articolo e l’intera testata.

E sulla pistola postata con sotto il nome del giornalista, direttore della testata, cosa è successo?

La stessa cosa.  Solo “una pistola giocattolo”, hanno ribadito i ragazzi nel profilo dietro al quale si nascondono. Uno scherzo insomma.

Tutto questo non è normale. Di questo passo le cose non cambieranno mai.
Quello che è successo a Luco è stato denunciato da un giornale, e neanche questo è normale.
Non sarebbero dovuti essere i giornalisti a presentare una denuncia alle autorità, come è stato, su un post visto da centinaia di persone. L’indignazione sui social non basta più. Serve che parlino le associazioni, gli ordini professionali, le forze dell’ordine.
Non dovremmo arrivare all’indignazione per certe cose, ma dovremmo evitarle, dovremmo cambiarle, cambiarle prima.

Negare l’evidenza è il modo migliore per non cambiare mai. Non cambiare significa che le cose andranno sempre così, o anche peggio.

Affinché ci sia un cambiamento, un cambiamento interiore, serve un costruttivo dialogo intergenerazionale e non il chiassoso consenso dei genitori.
Bisogna fare questo affinché tutto l’entusiasmo giovanile, la creatività, la ribellione siano investiti per il bene e non per il male.

Alzare muri tra generazioni è sbagliato, bisogna abbatterli e capire cosa spinge ad atteggiamenti sconvenienti che agli occhi di chi li compie, e spesso anche dei loro genitori, sembrano positivi.
Bisogna accogliere il segno dei tempi che cambiano, ma non condividerli a priori dimenticando gli antichi valori, che  restano sempre valori e che non soccombono al tempo.
Il dialogo, non l’accondiscendenza sterile, è la strada giusta, anche se è una strada tortuosa.

Schiaffi alla bambola gonfiabile nel giorno anti violenza sulle donne, minacce con armi ai giornalisti (Video)

Ecco come ti cancello il Natale

E fu così che nell’era del politicamente corretto e dell’inclusione ipertrofica ecco che qualcuno provò a cancellare il Natale.

Non è la trama di un film in stile Chris Joseph Columbus, ma è quanto realmente accaduto a Bruxelles dove tra una legge anticovid e l’altra c’è anche chi dedica il proprio tempo a rinnovare il vocabolario delle lingue europee e a censurare parole che vanno contro il concetto di uguaglianza. Una sorta di elenco delle parole da bandire previste nelle linee guida della comunicazione inclusiva.

Tra queste parole il commissario, anzi, la commissaria Helena Dalli, ha inserito (per poi ripensarci forse per una folgorazione sulla via di Damasco) anche il Natale.
E tante altre parole.

E così spariscono le parole “omosessuale” rimpiazzata da “persona gay”, addio anche a “Signore e signori”, meglio cari colleghi.
E via via, per arrivare fino alla parola Natale, da cancellare perché potrebbe offendere la sensibilità di qualcuno, non si sa di chi.
Andrebbe sostituita dal vocabolo “vacanze”. E in tal modo Gesù bambino sarebbe nato il “giorno di vacanza”, noi potremmo augurare alla signora Helena “serene feste di vacanza” e di trovare “tanti regali sotto l’albero delle vacanze”.
E quindi addio presepi, addio regali di Natale (pardon, regali di vacanze), addio a panettoni e torroni, e addio anche a Giuseppe e Maria, perché nel prontuario dei termini da censurare sono finiti anche la mamma e il padre putativo di Gesù, perché si sconsiglia di pronunciare i nomi tipici di alcune tradizioni occidentali con un più generico nome arabo. Tanto che Gesù non sarebbe più il figlio di Giuseppe e Maria, ma di Malika e Julio, pur restando figlio di Dio, sempre che non si voglia cancellare anche il nome di Dio.

Signora Helena Dalli, buon Natale.

Dalle piccole cose

Successo, potere, ambizione, posizione sociale. Il consumismo sfrenato, tipico delle società moderne massificate sui beni materiali ed effimeri sembra travolgerci.
Eppure c’è la voglia di cambiare perché tutti ormai hanno capito che chi cerca così di essere felice trova solo qualche momento di piacere, ma di felicità neanche l’ombra.

Basterebbe alzare per un attimo gli occhi dal display sintetico del cellulare e guardare le stelle del cielo.
Sono piccole le grandi cose.

Dio può fare grandi cose anche attraverso piccole azioni.
La semplicità è stata, da sempre, la via privilegiata di Dio.
Non dobbiamo farci prendere dall’ansia del fare grandi cose, dal voler tutto e subito.
Dobbiamo invece essere fiduciosi in Dio e avere la pazienza dell’attesa.
Il seme che cade nel terreno in autunno non cresce subito, cresce in silenzio. Ci vuole tempo.

E’ come la fede: nasce dalle piccole cose, senza fare rumore, pregando in silenzio, vivendo con amore nel terreno della vita, in famiglia, al lavoro, con gli amici, nella comunità di appartenenza.
Seminiamo nel cuore delle persone.

«A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Mc 4,26-34